Friuli Venezia-Giulia: “la terra delle brume e dei temporali”, come la definiva Pier Paolo Pasolini, suo illustre figlio. Friuli Venezia-Giulia: la terra dei festival del cinema. Durante il corso dell’anno, infatti, tra Pordenone, Udine, Gorizia e Trieste si svolgono regolarmente una serie di iniziative che rendono la regione più a est del nostro paese la più importante a livello di studi sul cinema. In particolare, grazie all’impegno di appassionati come quelli della Cineteca del Friuli e del Cinemazero.
Tra l’11 e il 18 ottobre scorso, come accade oramai da ventidue anni, si sono svolte le Giornate del Cinema Muto, un evento unico per studiosi e quanti adorano ammirare il cinema delle origini. Ancora una volta in quel di Sacile, in attesa che il Cinema Verdi di Pordenone, dove le Giornate videro la luce, venga ricostruito, lampante e banale dimostrazione dell’incapacità amministrativa italoforzuta. Ancora una volta, nella graziosa cornice della cittadina in riva al Livenza, tra le sale del Teatro Zancanaro e del Cinema Ruffo, con appendice presso la ex Chiesa di San Gregorio, dove si è svolta la Film Fair, fiera dell’editoria cinematografica e luogo di incontro per collezionisti di memorabilia.
Il programma all’apparenza non sembrava prospettare grandi sorprese. Soprattutto a quanti sono, da anni, affezionati spettatori delle proiezioni offerte nel corso delle Giornate. In effetti, per il settimo anno consecutivo, ad esempio, protagonista era David Wark Griffith, il padre del cinema moderno. Infatti, il progetto relativo al restauro dell’intera opera del genio creatore di “The Birth of a Nation” e di “Intolerance” è appena giunto soltanto alla seconda metà del 1913. E non siamo ancora a metà dell’opera!
Poi, per il terzo anno consecutivo era possibile apprezzare il materiale scoperto di recente dai due pionieri del cinema britannico, Mitchell e Kenyon, realizzato, in questo caso, in gran parte presso le località di vacanza dell’Inghilterra del Nord. Immagini tutt’altro che perfette, trattandosi di riprese databili al 1902, ma che risultano fondamentali per riscoprire un’epoca e per avere anche un’idea di quale fosse la reale natura del cinema al tempo. Macchina delle meraviglie, buona per le fiere e per qualche baraccone, e non ancora strumento di scrittura con le immagini, come l’ha poi definita qualcuno.
Non poteva poi mancare la scoperta della produzione cinematografica di un qualche paese lontano. Nell’ambito di un tentativo di studio del cinema del sud-est asiatico, che proseguirà nelle stagioni future, si sono viste le realizzazioni del neonato cinema tailandese: momenti di vita della monarchia, visite, fiere, documenti assolutamente primitivi. Come primitive sono da considerare le produzioni dei fratelli macedoni Ianaki e Milton Manaki cui Theo Anghelopoulos ha fatto apertamente riferimento nel suo “Lo sguardo di Ulisse” (Harvey Keitel, protagonista della pellicola, tornava al suo paese alla ricerca di quella bobina girata dai due fratelli e che mai era stata sviluppata). Interessanti, ancora una volta, come documento della situazione in cui si trovavano i Balcani ad inizio secolo, più che per l’effettivo valore cinematografico delle pellicole: macchina traballante, documentazione della vita reale, montaggio ancora allo stato grezzo.
Ma ecco, finalmente, una grande sorpresa. Una personale dedicata al grande attore russo Ivan Mosjoukine: una tra le star del cinema degli anni ‘20 e ’30. Uno tra quelli che abbandonò il proprio paese, oramai in preda ai Soviet, per trasferirsi in Francia e continuare la sua carriera da emigrato. Una grande sorpresa in quanto alcune delle opere viste facevano gridare davvero al capolavoro.
Un’altra rassegna, poi, è stata dedicata al cinema dei creatori di “King Kong”: Merian Coldwell Cooper e Ernest Beaumont Schoedsack. Questi due autori furono infatti gli autori di tutta una serie di film di esplorazione e furono i capi di una vera e propria scuola di cineasti la cui opera, come quella del grandissimo Robert Flaherty (autore di “Nanook l’esquimese” e de “L’uomo di Aran”, per nominare solo alcune delle sue pellicole), era caratterizzata da una sorta di documentarismo confinante con la fiction. Dove protagonisti erano: luoghi esotici, gli abitanti di questi luoghi e gli animali, spesso feroci, caratteristici.
E, poi, ancora, la proiezione, in occasione del centenario del primo grande film western della storia del cinema: “La grande rapina al treno” di Edwin S. Porter, ancora impressionante se si pensa che si tratta di un’opera del 1903. Ancor più impressionante in quanto si è avuta la possibilità di ammirarlo nella sua bellezza originale, con tutti i viraggi, caratteristica di un cinema che riusciva a non essere in bianco e nero, per quanto la pellicola a colori fosse ancora di là da venire.
Altro evento speciale è stato la presentazione di un film assolutamente sconosciuto, intitolato “Redskin” e diretto da Victor Schertzinger nel 1929, con accompagnamento del National Braid, un duo di musicisti di origine Apache. Una sorpresa reale. Un film che riesce a trattare del problema dell’assimilazione dei Nativi americani con sincerità, senza ipocrisia e, soprattutto, senza vedere la cosa dal punto di vista dei Bianchi, per una volta. Ma non è solo una questione di quello che viene raccontato. Anche visivamente, il film riesce ad impressionare. Sia esso per caso, come sostenne Henry Hathaway, assistente alla regia, o sia esso per una scelta consapevole, colpisce profondamente l’uso del bianco e nero alternato a quello del Technicolor. Tutte le scene che si svolgono in mezzo alla civiltà bianca, quando il protagonista Richard Dix si ritrova in cattività, sono riprese in bianco e nero, mentre le scene che si svolgono in libertà, all’interno della riserva pellirosse, sono a colori. Con un effetto notevole. Come notevole è stato l’accompagnamento del National Braid, che hanno scritto una partitura originale appositamente per la pellicola, cercando, a detta loro, di ottenere un effetto simile a quello prodotto da Neil Young perla colonna sonora di “Dead Man” di Jim Jarmusch.
E, ancora, si è avuta l’occasione di assistere alla proiezione del primo “Frankenstein” della storia, una pellicola Edison del 1910, diretta da J. Searle Dawley, che per molti anni era stata ritenuta scomparsa. Cosa che sarebbe successa non fosse stato per una copia nitrato che era stata acquistata da un ambulante dal collezionista Alois F. Dettlaff, personaggio a dir poco definibile pittoresco. Collezionista che non era mai riuscito a mettersi d’accordo con alcuno, a livello economico, per permettere una proiezione integrale dell’opera,salvo poi cedere ora, vista la realizzazione del dvd del film.
Quasi un’anteprima mondiale, quindi. Anteprima mondiale, in effetti, che è avvenuta realmente con la presentazione dell’unico frammento esistente, ritrovato, anche questa, per caso, del film di Josef Von Sternberg “The Case of Lena Smith” del 1929: 4 minuti di invenzioni visive che non possono che meravigliare anche quanti del regista tedesco non sono dei fan.
Non sono, inoltre, mancati gli eventi speciali nella serata inaugurale e nella serata conclusiva delle Giornate, nel corso delle quali sono stati presentati “Visages d’enfants” di Jacques Feyder e “Napoli che canta” di Roberto Roberti (il padre di Sergio Leone), cui la cantante Giuni Russo ha prestato la voce, come accompagnamento al film, esibendosi in una serie di canzoni napoletane.
La musica, come accade del resto ogni anno, è stata protagonista. Non solo per il fatto che ogni proiezione era, comunque, accompagnata da un musicista, o da un gruppo di musicisti, che provvedeva ad eseguire una partitura originale o d’epoca ma anche e soprattutto per la Scuola di musica ed immagini che è stata inaugurata e che mira a specializzare alcuni pianisti nella difficile arte dell’accompagnamento dei film muti.
Infine, si sono svolti per l’ennesima volta gli incontri del Collegium Sacilense, un tentativo di coinvolgere nuove leve di studiosi e di ricercatori nel campo del cinema muto, di modo che il lavoro che stanno portando avanti gli “eroi” delle Giornate del Cinema Muto non vada perduto ma possa avere un futuro.
E tante ancora sono state le piccole sorprese e iniziative che si sono svolte nel contorno delle Giornate cui era impossibile non rinunciare vista la ricchezza del programma. A dimostrazione di come non sia possibile pretendere di avere detto l’ultima parola su un’arte, quella del cinema muto, che era riuscita raggiungere davvero la sua perfezione e che soltanto il sonoro (con quanto questo poteva offrire in prospettiva, non certo per quello che ha dato, nella maggior parte dei casi) è riuscito a far dimenticare ingiustamente. Ingiustamente, come il grandissimo Aki Kaurismaki ha provato a farci capire con “Juha” il suo tentativo di film muto, ennesima perla della sua filmografia. Ma, grazie alle Giornate del Cinema Muto, è possibile anche a noi non dimenticare ma scoprire tesori che meritano di non essere perduti e che vanno protetti. Grazie a David Robinson, Livio Jacob e a tutti i loro collaboratori!