Quando si parla di anni ‘60 si pensa subito alla Nouvelle Vague. Soprattutto se si è in compagnia di certi individui che ti mangiano con l’arroganza e sul cui cervello è piantata la bandiera del cinema d’autore ad ogni costo. D’altro canto è facile cadere nell’austerità, quando il cinema spesso viene trattato come fenomeno commerciale, ed i ragazzini col pizzetto di vent’anni hanno molta voglia di riflettere e prendere le parti di chi aggredisce, critica e deforma (cadendo di volta in volta in un miscuglio di idee e moda, come, per l’appunto, accadde alla Nouvelle Vague). Ed invece nei primi anni ‘60 esistevano certi registi, i quali con certi attori (soprattutto attrici) e con certi sceneggiatori, divertivano con certi film che affrontavano persino certi argomenti. Erano film imposti da una produzione che sistemava e creava divinità e le metteva a disposizione della macchina da presa, la quale doveva far di tutto per divinizzare la futura, o già realizzata, star senza rinunciare ai propri tocchi di classe e dovendo strappare il sorriso (o anche il pianto) a chi era in grado di osannare o distruggere tutto ciò: il pubblico.
I certi registi erano Billy Wilder, Frank Tashlin, Stanley Donen, George Cukor. Certi attori erano Rock Hudson, James Cagney, Clark Gable, nelle parti di abili seduttori, che poi si lasciavano stupire e sottomettere da certe attrici all’acqua di rose, quali Doris Day, Marilyn Monroe, Jane Russel, intente a dimostrare che il sesso debole, in fondo, non è così debole. E dunque si trattavano certi argomenti quali la disparità dei sessi, i cambiamenti di costume nella società, l’abbattimento dolce dei tabù sessuali (omosessualità compresa).
Abbasso l’amore di Peyton Reed è un film che riporta alla perfezione le stesse atmosfere sciroppose di quella commedia Hollywoodiana, così accattivante anche nella sua puzza sotto il naso, così perfetta nel ritmo. Non si può non godere del lavoro del regista: split screen, costumi (valgono almeno un quarto dell’opera), scenografie ed arredamenti sono pienamente funzionali agli equivoci che la sceneggiatura (perfetta) “offre” agli attori (in stato di grazia), in una città (New York) descritta come un ridente luogo dove poter esaudire tutti i sogni (compreso quello americano con la S maiuscola).
Renèe Zellweger è Barbara Novak (il cognome dice tutto), una giovane scrittrice del Maine, alla ricerca della pubblicazione di un suo libro intitolato Abbasso l’amore e che affronta il tema del femminismo e dell’emancipazione femminile. Ewan McGregor (che circa dieci anni fa in Trainspotting era tutt’altro che un Lord) è uno sciupafemmine, dandy e di classe, che lavora in una famosa casa editrice che pubblica Abbasso l’amore, titolo che, nel giro di poco tempo, diviene un best seller internazionale in grado di appassionare le donne di tutto il mondo. I due si conoscono, si mentono, si sfidano, infine si amano. Il tutto sotto una patina rosea ed elegante.
Di queste pellicole-nostalgia Hollywood ci aveva dato un assaggio l’anno scorso con il melo anni ‘50 Lontano dal paradiso di Todd Haynes. Quest’anno la formula si è replicata e noi siamo contentissimi. Vorremmo vedere questi film sempre, ovunque ed in ogni Era. Ma le epoche cambiano e purtroppo questa rimane un’operazione nostalgia che ci fa venir voglia di un passato nel quale non c’era tutta questa tecnologia e le idee erano grandiose.
Potessimo tornare 40 anni indietro… vedremmo “uomini che preferiscono le bionde”, quelli che “sposano le brune”, uomini ai quali “piace caldo”. Sublime… questo è il cinema che vogliamo ma che non vediamo più.