Non ho visto il film cui Gus Van Sant dice di essersi ispirato (l’ omonima opera di Alan Clark). Il mio dissertare non potrà che essere monco.
Il titolo ripreso, come già detto, da una vecchia pellicola di Alan Clark, nasce da un equivoco. Pare che Van Sant pensasse che il titolo dell’opera di Clark alludesse a uno scritto buddista del secondo secolo A.C. in cui alcuni uomini tentavano vanamente una definizione onnicomprensiva dell’ “elefante” sulla base delle singole parti della bestia. In realtà Clark (come acquisito dallo stesso Van Sant in una intervista all’autore) si riferiva al detto secondo il quale certi problemi sono ignorabili come “…un elefante in un salotto”. A Van Sant non resta che rifare un film dallo stesso titolo reindirizzando l’allusione verso la sua beneamata parabola buddista.
Tra Michael Moore e Larry Clark
Che sia dichiaratamente un documentario, o scelga di mantenere le suggestioni del genere lavorando sulla architettura del racconto, la direzione di certo cinema d’autore sembra presa. E se il documentario di Micheal Moore (Bowling for Colombine) partiva da un episodio di cronaca per raccontare una America che non siamo soliti “frequentare”, Elephant inizia proprio là dove ci aveva lasciati il documentario di Moore: non dalla cronaca, non da un fatto, ma dallo stato delle cose, ora. Non la realtà in sé, quella virtuale, piuttosto, creata dai media e cristallizzata, vivificata dall’immaginario comune. Ecco i sentieri che certo cinema ama solcare, quelli del racconto di vita attraverso la mimesi del medium. Si tratta di dare un peso al medium senza esporlo o, esponendolo, evitare, però, di chiamarlo col proprio nome.
Riguardo l’identità estetica del film è opportuno segnalare come sia ormai impossibile prescindere da Larry Clark quando si parla di adolescenza violenta.
Elephant
Il film ha inizio con una suggestiva “camera fissa” sul cielo.
In campo: un traliccio, una teoria di nuvole spinte da un vento dalla forza sovrannaturale e un lampione che si accende puntuale al calare della sera. Fuori campo le tante voci della gioventù che Van Sant si appresta a raccontare. Un attimo dopo seguiamo una macchina che percorre un viale alberato. Non va. Arranca, accelera, frena, riparte. Sembra un videogioco quando chi gioca non ha mai preso un joypad in mano. A ben guardare l’inquadratura è classica, inequivocabile, da playstation. In realtà, semplicemente, sta guidando il padre ubriaco di John, uno degli studenti attorno a cui ruota il plot. Van sant procede così: presenta uno o più personaggi, li segue lungo un breve periodo che viviamo letteralmente in “tempo reale!” e passa a un altro. Anche questi momenti, così come per la scena in automobile sono immediatamente riconoscibili, anche qui l’inquadratura sulla nuca del soggetto è classica, da videogame, da FPS, per l’esattezza ( First Person Shoot’em up).
Il suo\nostro vagare per i corridoi della scuola, anime palpitanti del fantoccio di turno, ci fa partecipi dell’azione ma al tempo stesso ci investe dei poteri del videogiocatore –primo fra tutti l’invulnerabilità- facendoci desiderare una svolta a qualunque prezzo. Eppure non succede nulla. Le storie dei ragazzi-fantoccio sono semplici, costruite su dialoghi naturali, malfatti, quasi. Ma finito il tour tra le identità, la sensazione che si siano innescate delle micce, che non si può tornare indietro, che sta per accadere qualcosa è prepotente, e la memoria corre al cielo e alle nuvole e al traliccio della prima sequenza. Poi ovunque è indifferenza e morte.
Van Sant individua il disagio giovanile e ce lo mostra in tutte le forme che conosce. Il click mentale potrebbe scattare in ciascuna delle realtà individuali che ci presenta, potrebbe scaturire da ciascuno dei loro problemi, gravi o banali essi appaiano. Ci mostra, insomma, una realtà credibile e riconoscibile, ci regala la netta sensazione che quello che accade, per quanto sconvolgente e lontano dal nostro mondo perfettamente logico e prevedibile, sia quanto meno probabile. E sa schivare i “giochi di ruolo” del rozzo sceneggiare. Gli accademici emeriti, professori della fiction ortodossa, maestri dello stereotipo, specialisti nel riannodare i fili, non troveranno nulla di ciò che studiarono ai loro corsi di sceneggiatura, secoli fa. Non c’è il protagonista, né la svolta a un terzo di pellicola. Né colpi di scena o happy-end. Alla fine anzi i luoghi del cinema latitano fastidiosamente: non sappiamo dove infilarci, quali sono i panni più comodi? Ci chiediamo girando per i corridoi.
Come si fa, qui, a immedesimarsi?
Un personaggio che si lasci possedere non c’é. Già dopo il primo sparo sono tutti refrattari quei corpi che corrono su e giù per la scuola. Troppo freddi, troppo duri o troppo veloci o semplicemente morti. Non ci lascia scampo, Elephant, è spietato e ci costringe al distacco, a sperimentare uno sguardo nuovo: non quello mediato e meditato da video gioco a cui ci stava abituando, né quello complice del cinema. Ma quello nudo, incredulo e impaurito con cui spiamo la vita quando minaccia di sfuggirci di mano.
La somma delle parti non rassomiglia al tutto
Le storie che costituiscono l’intreccio si sfiorano ma rivendicano a gran voce la loro imprescindibile autonomia, ognuno dei ragazzi è un essere egoico e a sé stante. Il concetto di integrazione tra ragazzi di quell’età, d’altra parte è più che relativo, è il momento in cui le loro coscienze capitalizzano l’esperienza in virtù di una personalità più o meno stabile. Ed è proprio quel breve periodo, il varco di quella soglia sottile, che Van Sant sa raccontare meglio di chiunque altro. La genesi dell’io.
Egli pare sapere quando accade, quali siano le tappe da conquistare, che talvolta le soddisfazioni e le conquiste designate si distorcono, crescono a dismisura su piccole idee strampalate e mutano in mostri. Ma sa anche che non possiamo sapere chi, e non possiamo sapere quando. Benché ci sembri di conoscere un luogo e i suoi abitanti, le loro intime ossessioni, le individualità, la natura del luogo che li ospita, d’un tratto le azioni individuali, i microeventi a cui partecipano, nel breve periodo, i personaggi, innescano un meccanismo che non assomiglia a nessuno dei suoi elementi. Nessuno poteva immaginare nulla, i ragazzi conoscono solo il loro mondo, gli adulti –grandi assenti o quasi- conoscono solo il loro ruolo. La loro visione, così come la nostra, è drammaticamente parziale.
Imperdibile il papà ubriaco di John che -gli occhi sulla scuola in fiamme- chiede al figlio: – Cosa sta succedendo, figliolo? –