Nell’arco di dodici ore, dal primo pomeriggio alla mezzanotte di una domenica come tante, scorre abitudinaria la routine esistenziale di un gruppo di famiglia in un interno (ed esterno) padano, tra la casa padronale, i fienili circostanti e gli alloggi poco confortevoli dei lavoratori stagionali extracomunitari. Tutto intorno, la natura, selvaggia o addomesticata, rassicurante o enigmatica: le colline moreniche e i torrenti, i campi coltivati e quelli incolti, i grilli e le cicale. Non è forse lei la vera protagonista di una pellicola inafferrabile e sfuggente, eppur così concreta?
Interrogativo di difficile soluzione, questo, che racchiude forse il senso profondo di “Al primo soffio di vento”: polisemantico per intenzione (ed ammissione) dello stesso regista, il quarto lungometraggio in vent’anni del settantenne Franco Piavoli (“Il pianeta azzurro”, l’esordio datato 1982, rimane ancora oggi il suo film più famoso) cela, dietro l’apparenza conciliante e serena di un poema panteista su una natura materna e rassicurante, molte delle contraddizioni, anche profonde, che animano, e talvolta affliggono, il mondo moderno.
Macchina fissa (per cogliere al meglio anche le più impercettibili variazioni della luce, e l’effetto di queste sulla realtà), musiche ridotte al minimo, e classiche (solo Ravel, Satie, Poulenc e pochi altri, ad interrompere di rado un concerto di grilli e cicale, fruscio di foglie e scorrere d’acque), la miopia distributiva che fa uscire il film ad un anno dalla presentazione, in concorso, al Festival di Locarno: gli ingredienti per l’insuccesso commerciale ci sono tutti, ma questo film, che sembra senza tempo e invece è radicato profondamente nel presente, non merita il destino già segnato cui va incontro con stoica noncuranza.
Opera colta (che si apre con un titolo preso in prestito dalle “Argonautiche” di Apollonio Rodio, e si chiude con “La Tempesta” di Shakespeare) ma tutt’altro che elitaria, dal ritmo placido ma mai noiosa, il film è un saggio non banale intorno al tema della solitudine. Una solitudine “affollata”, perché vissuta a stretto contatto con altri individui portatori (in)sani di altre solitudini, che trova nella biologia darwinista e nella genetica prima ancora che nella psicologia e nella sociologia una spiegazione logica della propria esistenza.
Nella natura che interviene a spiegare un fenomeno “tipicamente” umano e societario c’è tutta la contraddizione che anima il film, sospeso tra l’antropocentrismo del tema (la solitudine) e la naturalità della spiegazione (il patrimonio biologico dell’essere umano). La natura, però, non è solo strumentale ad una spiegazione: è anche il collante, il tessuto connettivo, la presenza comune che unisce di riflesso i protagonisti altrimenti (irrimediabilmente) divisi: non solo perché tutti immersi nel medesimo ecosistema, ma anche perché tutti in qualche modo indaffarati in attività che con la natura hanno più o meno a che fare (la ricerca sui moscerini della frutta, l’erbario, le passeggiate in campagna).
Ed ancora: se per alcuni personaggi vale il principio (antico quanto la letteratura) del paesaggio-stato d’animo (la scoperta dell’amore nella serena cornice delle sponde di un torrente) per altri si fa evidente il contrappunto paesaggistico ad un male di vivere di natura esistenziale.
Limitarci alla disquisizione intorno al rapporto “natura-uomo”, però, non rende giustizia al versante a suo modo “politico” del film, che è anche un’indagine acuta sul rapporto tra Terzo mondo e Paesi ricchi, svolta attraverso la descrizione di un microcosmo, quello di un’azienda agricola di medie dimensioni, in cui emerge il dualismo profondo che separa lo spirito di solidarietà di ciascuno dalla paura, spesso inconscia, del diverso, dello straniero, dell’altro da sé: l’incubo del padrone (“i servitori” si appropriano della sua biblioteca, della sua cultura, colmano il divario che li separa da lui) è anche il nostro incubo, e vederlo rappresentato sul grande schermo (verrebbe da dire, vederci rappresentati sul grande schermo) crea un misto di disagio e di fastidio con cui vorremmo (forse inconsciamente) poter non fare i conti.
Questo, probabilmente, è il merito più grande di un film dal sapore antico e dall’anima moderna: ci permette di guardarci dentro, ci mostra per come siamo e non per come vorremmo convincerci d’essere. E quello che vediamo non ci piace affatto.