Premesso che Amore estremo sia una innocua commedia rosa-gangsteristica, poco originale ed a volte persino involontariamente comica: il film è altresì un esempio cinefilicamente molto interessante, esemplare, per analizzare e studiare i meccanismi produttivi hollywoodiani, nelle aree del film medio. Senza particolari incrostazioni devianti dovute ad una particolare autorialità o a qualche originalità stilistica che renda il prodotto non così facilmente catalogabile. Amore estremo fa sorridere per l’ingenuità con cui mixa la miscela di ingredienti necessari alla panificazione di questa pellicola-baguette. Innanzitutto un regista di ottima professionalità come Brest, già direttore di Scient of woman, inutile ed inferiore replica paciniana dell’originale risiano-gassmaniano.
Poi due attor giovani, i classici “innamorati” della Commedia dell’Arte, tanto piacevoli e garbati quanto poco taglienti ed incisivi ai fini dello spettacolo. Ben Affleck, belloccio da fotoromanzo dopato, moderna imitazione del kitsch elvispresleyano, non cane ma totalmente privo di espressività, quasi fosse affetto da paresi facciale. Poi, una muscolosa nanetta musicale come Jennifer Lopez, anch’essa non cagna ma intenta, come il collega Ben, a sottintendere la propria figaggine più che a recitare. Certo la responsabilità è innanzitutto degli sceneggiatori che mettono loro in bocca frasi improbabili e fortemente scollate dai personaggi del racconto quanto più legate all’immagine pubblica di Affleck e della Lopez. Esemplare è il tirato monologo della Lopez sul pene e sulla vagina che raggiunge vette di virtuosismo ottuso che lo avvicinano ad una parodia del celebre monologo cyranesco sul naso. Una predica comicamente erotica che sembra più che altro uno sfogo degli sceneggiatori del film, bloccati ed annoiati dai legacci di una storia politicamente corretta che dovrebbe accontentare tutti. Gli autori di Amore estremo – perché questo titolo oshimiano, qui è tutto mediano, non v’è nulla d’estremo? – hanno inserito nel plot, con ligio schematismo, la presenza d’un ritardato che intenerisce il duro Ben perché vuole andare sul set di Bay Watch a rimorchiare le bonazze sulla battigia; poi ecco che la protagonista femminile rivela al bel Ben il proprio lesbismo, prima inducendolo a riflessioni autocritiche sul proprio machismo, per poi decidere di rientrare nella norma sessuale e seguire l’imprevisto amore per Ben. Insomma, una serie di scelte tagliate con l’accetta, talvolta espresse in modo ridicolo.
E deve essere stato un momento di ricarica per gli autori del film, scrivere il monologo-marchetta interpretato da Al Pacino, nel ruolo di un boss freddo ed aggressivo. Monologo cucito su misura sulla personalità carismatica e magnetica di un uomo basso come Pacino che sul set diviene un gigante. Scrittura professionale quella realizzata per Al ma che tra le sue mani diviene comunque Arte. Un po’ come le mediocri canzoni dozzinali che in bocca a Mina divengono come oro tra le dita di Creso. Il ruolo destinato a Pacino è prevedibile come lo era il similare ruolo-cammeo di Dustin Hoffman nell’altro recente film gangsteristico Confidence. Anche Hoffman, boss freddo ed isterico in un film che era comunque un po’ superiore ad Amore estremo. A dimostrazione di come alle altezze del prodotto professionale medio i film vengano realizzati quasi su di una catena di montaggio. Film di confezione.
Eppure la presenza in queste pellicole dei cammei di Hoffman, di De Niro, ma soprattutto di Pacino, seppur per cinque minuti, salvano il film, lo rendono meritorio di essere visto. Come le agnizioni caserecce di Totò o Sordi salvavano i lavoretti spesso elementari in cui si trovavano ad intervenire. Quindi, fatevi avvertire dall’esercente quando sta per entrare in scena Al Pacino, e vedetevi Amore estremo il tempo della sua performance, chiedendo il pagamento di un biglietto a tempo.