Evan Treborn è un universitario qualunque, che un bel giorno scopre in uno scatolone i diari della sua infanzia. Questa è stata costellata di tragedie di varia risma (da un padre impazzito fino ad un filmino pedofilo), che egli ha nascosto dietro i suoi vuoti di memoria; lentamente comincia a ricordare e, come fece suo padre, scopre la facoltà di cambiare il passato. Attraverso la lettura di quelle righe può immergersi nel suo corpo da bambino, alterando piccoli dettagli mutare il corso degli eventi ed evitare conseguenze nefaste; ma il destino è duro a morire, ed ogni sua incursione nel passato si risolverà in una nuova tragedia.
Vi ricordate la storia della farfalla che muove le ali, provocando un terremoto dall’altra parte del mondo? Questo l’ipse dixit che scorre sullo schermo in apertura, per introdurre l’ennesimo intreccio soprannaturale sull’essenza della memoria umana. Debitore di Memento di Christopher Nolan (lo scorrimento della storia all’indietro) e de Il sesto senso (l’alone soprannaturale, il rovesciamento della prospettiva), la pellicola rivendica ascendenze da Seven (esplicitamente citato: i protagonisti lo vanno a vedere al cinema!) ma di fatto trae la maggiore ispirazione da Final Destination: la coppia di esordienti registi, Eric Bress e J. Mackye Gruber, sono le stesse quattro mani che composero la sceneggiatura del secondo episodio. Una miriade di ispirazioni che rischiano di non suggerire nulla di nuovo: invece il film c’è, inchioda lo spettatore alla poltrona e da essa lo fa spesso sobbalzare, si impernia su un deja-vù (la possibilità di mutare il proprio passato) ma lo manovra fino a portarlo dove vuole. Il thriller mescola le carte fino all’inverosimile, moltiplicando freneticamente i piani narrativi: le diverse realtà si rincorrono in successione, snellendo le due ore della visione in un corpo unico, lo spettatore è preso al cappio fino ai titoli di coda. Un film che ruota su sé stesso, capace ipoteticamente di ripetersi all’infinito, allo stesso modo di Madama Morte che andava a riprendersi i suoi bambocci a colpi di decessi (in)naturali. Ancora una volta il cinema di genere centra il nocciolo della questione: l’orrore è nella mente umana, la vera perversione è la sua psicologia. Di contro, l’elucubrazione mentale non conduce mai al sentiero della noia stagnante, viste le improvvise deviazioni sulla tortura del corpo: una sigaretta disegna la cicatrice sulla pancia di Evan, ma soprattutto egli si sveglierà nel letto sorridente, per poi scoprirsi patetico mutilato. L’ironia tagliente (è il caso di dirlo) ricorre tra le righe ed opportunamente fa capolino, giocando sull’alterazione estetica (il capodoglio che divide la stanza con Evan, improbabile rubacuori) ed assecondando una tentazione perversa; c’è un gioco sottile, un sorriso tra le righe anche nel bagno di sangue più spietato. Gruber e Bress sono due sadici dinamitardi: ormai esperti di esplosioni, infilano un candelotto di dinamite in mano ad una candida cerbiatta bionda, così come avevano fatto saltare in aria il finale del sottovalutato Final Destination 2. Crudeli e disperati, all’occorrenza misurati (lo sfioramento finale tra la folla), ma anche spassosi ed impuniti: i due giocherelloni confermano di saperci fare, candidandosi con questa sceneggiatura di ferro come outsiders della stagione. Si vantano di avere impiegato sei anni per completarla in ogni dettaglio; sicuramente più sbrigativa la prova del casting, che pone al centro della partita due fighetti in cerca di consacrazione (Ashton Kutcher ed Amy Smart) ma lontanissimi dal mestiere dell’attore. La puzza di divismo reclamato da ogni ruga dei loro volti (sempre inamidati, ma dai) insinua il sospetto dell’operazione a tavolino: forse che per assicurarsi il minimo incasso sindacale, la farfalla si sia volutamente posata su un target giovanile? Ma siamo già nel processo alle intenzioni, servirebbe un ritorno al passato (l’ennesimo) per saperlo, al sinistro periodo della pre-produzione: ma il sottoscritto, colpito anch’esso dal butterfly effect, non ha davvero alcuna voglia di farlo.