Sembra che Tim Burton, un tempo enfant prodige del cinema fantastico, oggi rodato professionista e autore dal riconoscibile marchio, abbia definitivamente deciso di oscillare tra produzioni di maggiore e più immediato richiamo commerciale e lavori di un intimismo più raccolto e personale. Sin dal primo Batman, infatti, uscito nel lontano 1989, il regista statunitense si è impegnato nella realizzazione di potenziali blockbuster con tanto di batage promozionale dai contorni ossessionanti. Si tratta di prodotti spesso corali e dal potente impianto spettacolare, come il sopracitato Batman, Mars attacks! e quella che consideriamo la prima vera delusione infertaci nella sua eccelsa filmografia, il mediocre e poco ispirato remake de Il pianeta delle scimmie. Alla seconda categoria, invece, appartengono i suoi primi lavori (come spesso accade) Frankenweenie e Pee Wee’s big adventure, e poi Edward Mani di Forbice, Ed Wood e questo Big Fish. A ben vedere, però, questa suddivisione, che come tutte le schematizzazioni non rende giustizia alla confusa realtà delle cose, risulta particolarmente artificiosa se utilizzata per leggere l’opera di Burton. La grande capacità di questo fine affabulatore, infatti, sta tutta nel nutrire ogni suo film della propria personalissima poetica, infondendogli quel tocco unico, così genuino e al contempo così adattabile all’industria cinematografica di marca hollywoodiana. E’ capitato infatti che prodotti maggiormente intimi raggiungessero fette di pubblico più ampie di lavori pensati per sbancare al botteghino. E’ ciò che ci auguriamo succeda a lungo termine con il suo nuovo, affascinante Big Fish.
Con un’opera che sembra una definitiva dichiarazione d’amore per i propri fantasmi e personaggi, Burton risale la corrente del suo personalissimo fiume e giunge alla fonte, dove tutto iniziò, dove quel mondo scorreva ancora ignaro del posto privilegiato che il favore delle masse gli avrebbe accordato. Giunge ai figli malinconici come Edward e Jack Skellington i disadattati, Beetlejuice, volgare ed irresistibile folletto – zombi, giunge al racconto epico e ridondante (in una possibile accezione positiva…) di Batman, per approdare ai colori sgargianti dell’avventura del clown Pee Wee. Il carattere autoriflessivo dell’opera porta il creatore e tenero padre di questa dimensione parallela ma a tratti intersecante la nostra, ad abbandonare in larga parte le atmosfere crepuscolari ai limiti dell’orrorifico che lo contraddistinguono, per inondare di luce i mostri, i giganti, le fate e le streghe, quasi come se alla fine del tortuoso percorso in una buia caverna questi “compagni di viaggio” uscissero, visibili tutti insieme per la prima volta, in una sfilata di felliniana memoria. E’ la lunga sequenza prima del finale, quella del funerale del padre, che potrebbe fungere quasi come testamento spirituale (se non fosse che il buon Burton è ancora sotto i cinquanta e ci auguriamo faccia ancora molto), dove i personaggi “inventati” ma reali si rivelano ad un figlio realista e scettico, che era giunto ad odiare il padre e le sue storie inverosimili e che riscopre la poesia dell’immaginazione con un processo anch’esso inverosimile e puramente cinematografico. Un cinema che si perde nella illusione del poter mostrare il mutamento di un sentimento, una rivoluzione interiore che non può essere congelata sulla pellicola e che invece l’autore vuole donarci attraverso una stilizzazione favolistica che al termine raggiunge anche la realtà “vera”, quella che scorre al di fuori delle narrazioni di Edward, il padre, ma che ne è bagnata (e non viceversa, come potrebbe apparire) e di cui si nutre. Il film di Burton non è altro che la storia di un tizio che racconta storie, mostrate dal film stesso, che ci presenta alternatamente le favole raccontate dal personaggio e la “storia della Realtà”, che è quella narrata in primo grado dal film, e ci lascia con uno splendido suggerimento: quella che noi vediamo e che chiamiamo Realtà non è che pura percezione e, come la realtà di un’opera d’arte, può diventare una meravigliosa favola, tutta nostra.