Volendo essere sinceri e leali con i lettori, cominciamo col mettere le mani avanti: non abbiamo né gli strumenti, né le relative conoscenze, per valutare appieno l’aspetto teatrale di un film. Ma di una cosa siamo sicuri: se Wagner avesse visto l’ultimo film di Lars von Trier si sarebbe piuttosto risentito. Quindi, lasciando la dimensione appena accennata (che ogni volta ci mette in seri problemi di valutazione, Mario Martone ce lo fece già notare), approdiamo a quella cinematografica, che la ingloba ma che ci permette di riflettere sul “resto”. Amiamo molto Lars von Trier, soprattutto quando ci parla di malattie e sentimenti deviati, ma puri, (Le Onde del Destino) e quando ci mette spettatori di un serial metafisico-orrorifico-grottesco, dandoci in pasto alle mostruose azioni di coloro che, invece, ci dovrebbero guarire: i medici (The Kingdom 1 e 2). Un po’ meno abbiamo apprezzato il regista danese nel suo processo di dogmatismo, con set non ricostruiti, telecamera traballante, schifezze di orrore quotidiano, esseri umani che lottano con le loro parole (e le loro orge) contro i pregiudizi borghesi (Idioti). Ancora di meno apprezziamo il regista danese quando, avendo già con il Dogma95 elaborato delle regole con cui fare del (puro) cinema avanguardista, e avendo creato una moda, contraddice e distrugge in parte ciò che ha contribuito a creare: Dogville è un film che va al di là del Dogma95. Si svolge su un set teatrale dove è messa in scena la vicenda che vede protagonista una cittadina della classica provincia americana. La cosa provocatrice e particolare è che le case “raffigurate” sono disegnate sul pavimento insieme alle strade, ai cani, agli arbusti tranne i mobili, i divani, le sedie, gli alberi e le“montagne”.
Su questo palcoscenico, illuminato da diversi tipi di luce, a seconda se sia notte o giorno, si svolge la storia di una forestiera, perseguitata non si capisce da chi, ricercata anche dalla polizia, che inizialmente viene protetta, accettata dalla comunità, che non esita ad avere e mostrare i propri dubbi, sebbene il giovane filosofo, aspirante scrittore, la ritenga una specie di dono adatto a rendere più felice la vita del paesino. A poco a poco Grace (Nicole Kidman) inizierà ad essere sfruttata con estenuanti ore lavorative, ad essere ricattata sessualmente, cadendo vittima del perbenismo, dell’ipocrisia, della ferocia umana e del concetto di democrazia che la “incatenerà” per la sola accusa di voler fuggire da un paesino che ormai la disprezza. Von Trier vuole parlare dell’America, del suo capitalismo, del ridicolo della gente semplice americana e delle loro facce buone e, forse, ingenue. Anche se, a dir la verità, l’autore danese sembra voler ampliare il discorso non solo per ciò che concerne la nazione a stelle e strisce: la riflessione (sull’arroganza, lo sfruttamento, lo stupro fisico ed ideologico) va a colpire, soprattutto nell’ultima sequenza, la natura stessa dell’uomo, che risponde alla fine con un pugno ad uno schiaffo ricevuto. Von Trier provoca attraverso la forma, ma si limita a distruggere senza proporre un qualcosa. E Dogville da la stessa sensazione di uno dei tanti manifesti di avanguardia e di contro-cultura la cui essenza è quella della critica a tutti i costi. Perciò si tratta di un film, per quanto formalmente rivoluzionario, decisamente inconcludente e decisamente costruito anche sulla bellezza cerebrale di Nicole Kidman.
La cosa buona è che questa inconcludenza sia abbastanza nascosta dalla bravura degli interpreti (americani), i quali fanno di Dogville un vero e proprio capolavoro di recitazione. D’altro canto è sempre teatro (incluso nel cinema).