Anno di grazia 1999. Alessandro Piva, barese (o quasi) di grande talento, debutta nella difficile arte del lungometraggio con LaCapaGira: pochi soldi, molte idee, bravi attori provenienti dal miglior teatro regionale, una manciata di non professionisti di rara efficacia, un dialetto così stretto da giustificare il ricorso ai sottotitoli. Il favore della critica internazionale al Festival di Berlino ed il passaparola inarrestabile del pubblico di casa nostra fanno il resto, consacrando questo titolo povero ed autarchico ad un successo tanto meritato quanto inaspettato: ed è subito cult.
Anno di grazia 2003. A quattro anni da quella felicissima (e singolare) congiuntura positiva, Alessandro Piva torna dietro la macchina da presa, e affronta con Mio cognato l’esame più difficile per un giovane cineasta: il secondo film. Che dovrebbe essere, per lui come per tutti i quasi esordienti di belle speranze, il film della conferma e della consacrazione, e invece il più delle volte tradisce le aspettative e raffredda gli entusiasmi.
Promosso o bocciato? L’esame, non c’è dubbio, può dirsi superato, ma con risultati ben inferiori a quanto fosse lecito aspettarsi: poco è rimasto, in questa seconda pellicola di Piva, della sana, confusionaria, anarchica eccessività che era il maggior pregio dell’esordio. La dimostrazione è già nel titolo del film: doveva chiamarsi Vito, morte e miracoli, e prometteva sin dal gioco di parole un gustoso sapore surreale, ed invece esce in sala come Mio cognato, e sarebbe ingeneroso qualsiasi commento, anche il più pacato. Non rimane che capire a cosa è dovuto il cambiamento di rotta: il desiderio del regista di “nobilitarsi” virando verso un cinema più classico (nell’impianto, nei contenuti, nelle citazioni colte)? Oppure (ed è la tesi che in molti sposeranno) l’eccessiva prudenza di una major italiana (Rai Cinema) che non vuole correre troppi rischi inutili, e impone una “normalizzazione” che mal s’addice allo stile di Piva?
La verità sta nel mezzo: sarebbe semplicistico, infatti, puntare il dito contro lo scarso coraggio dei produttori, ricordando il clima di libertà creativa e d’autarchia finanziaria in cui maturò LaCapaGira.
La scommessa di Piva, il suo tentativo di nobilitazione, sta da un lato nel calare due attori conosciuti e già affermati nella Bari notturna e delinquenziale che è l’habitat a lui più congeniale; dall’altro nel ripercorrere strade e rivisitare luoghi già percorsi e attraversati da illustri predecessori. Nulla da eccepire circa gli interpreti: la scelta di affidare a Sergio Rubini un personaggio dai toni grotteschi ed eccessivi, lasciando a Luigi Lo Cascio (in una delle prove più difficili e riuscite della pur breve carriera) una caratterizzazione sommessa e sottotono, è una decisione felice.
Maggiori dubbi desta il tentativo di miscelare nello stesso film situazioni, spunti e suggestioni che rimandano ad almeno tre gioielli del cinema internazionale che lo spettatore non tarda a riconoscere. Toni è un “faccendiere” invischiato con la malavita, Vito un’anima semplice e candida che con lui condivide solo una parentela acquisita: è suo cognato. Quando i soliti ignoti rubano la macchina a Vito, Toni gli offre il suo aiuto: insieme, a bordo di una decappottabile rossa, intraprendono un viaggio al termine della notte barese. Il poco tempo trascorso assieme li avvicinerà, lo sbruffone scoprirà (ma forse l’ha sempre saputo) di voler bene allo sprovveduto, e viceversa. In agguato, però, c’è un finale tragico, e a rimetterci sarà proprio…
Lo spettatore non impiegherà molto ad intuirlo, viste le affinità (alle volte oltre i limiti del plagio) con Il sorpasso; ma non mancano neppure riferimenti a Cane randagio di Kurosawa (da cui riprende la “ricerca di qualcosa” come motore dell’azione) e soprattutto a Fuori orario. Ed è proprio la rilettura del film di Scorsese ad offrire i momenti più riusciti. Nella sua personale e metropolitana discesa negli Inferi, Vito si imbatte nella fauna bizzarra e pericolosa che popola la notte: è in questi momenti che Piva ritrova la sua vena migliore, e non sbaglia un colpo nella tipizzazione dei personaggi (loschi figuri che rispondono al nome di Sandokan o Marlon Brando, un’aspirante velina che cerca di circuire Vito), nei tormentoni linguistici (la domanda “Ma tu sei di Bari” che tutti rivolgono di continuo al disorientato Vito), nelle impennate visionarie, nel ritmo. Sono questi i momenti migliori del film: attraverso il dialetto, che torna ad essere irrinunciabile necessità espressiva, Piva si conferma narratore spigliato e sicuro. Sono queste le qualità che ci piacciono, e che ci fanno dire “esame superato”.
Tutto il resto, dal citazionismo esasperato al tentato “classicismo”, è orpello controproducente, fardello che pesa sul talento, zavorra che ne limita il volo.