Meno male che alla proiezione stampa de Il compagno americano di Barbara Am. Barni fosse presente, insieme a me, il valente caporedattore Ludovico Bonora. A volte si è testimoni di fenomeni unici, che a raccontarli non si è creduti oppure non si è compresi fino in fondo. Quale credibilità può avere chi, da solo, si trova ad osservare un’apparizione della Madonna o il volo segreto di un Ufo? E quale pesante incomunicabilità gli porta questa esperienza! Stringendo: se io o Ludovico fossimo stati soli nella visione del film della Barni ben ci sarebbe stato difficile comunicare l’entità della bruttezza di questo lavoro, la sua delirante sconclusionatezza, la sua incredibile incoscienza culturale, la sua scrittura adolescenziale ed incoerente, la recitazione ai limiti del saggio scolastico, la ridicola e patetica pretenziosità. Ma le parole non bastano e Ludovico mi può capire.
Il compagno americano – titolo, tra l’altro, che scimmiotta il bellissimo film di Wim Wenders L’amico americano – appare come un’opera televisiva nei ritmi stilistici ma dal soggetto che tenta di sovrapporre tematiche completamente diverse nel tenore con esiti disastrosi o, più spesso, involontariamente comici. All’ingenuità, all’innocente candore o alla diabolica perversione di alcune scelte registiche e di messa in scena della Barni, va reso il merito o la colpa di aver generato questo freak incredibile, un film fuori, più che sopra, le righe; esempio di un marginalismo artistico più che produttivo, di un terzomondismo culturale, di un balcanismo (senza offesa per i balcani) espressivo frutto di un cinema ritardato mentalmente quale non sarebbe, di per se, quello italiano. La Barni sembra l’autrice di un fantomatico cinema sottosviluppato, quasi avesse girato una pellicola per gli immaginari fratelli La Marca, genialmente ideati da Ciprì e Maresco, alfieri di un trash volontario e tutto intellettuale. Il trash della Barni invece è spontaneo, generato da incompetenza, da ignoranza, da negligenza e probabilmente da finanziamenti elargiti in modo poco meritorio.
L’operazione, tipica da Prima Repubblica, pare quasi una scusa posticcia per riciclare denaro che poteva certo essere speso meglio. Eppure il film della Barni è a tal punto un assurdo reale che sovente tocca le vette del sublime, di un sublime sghembo che mi è difficile comunicare tranne che a Ludovico Bonora. E’ talmente anticinematografico, Il compagno americano, pur parlando soprattutto di cinema, da far intravedere nelle sue bizzarrie la complessa trama di un ricamo esoterico, di un messaggio subliminale, come le canzoni suonate al contrario, di una significazione ulteriore che non centri nulla con le immagini proiettate. Ma questa è metafisica bachtiniana, la realtà è molto più prosaica. Spesso si vedono film brutti o mal riusciti, sono molto più rari i film assurdi, film nei quali la bruttura è anche un elemento secondario.
Mi viene in mente Glenn or Glenda oppure Arrapaho e chissà quanti altri esempi da ricercare negli angoli morti del cinema come arte e come commercio.
Non posso far altro che pregare il lettore di andarsi a vedere L’amico americano perché possa salvare dall’assedio di una solitudinaria consapevolezza me e Ludovico Bonora.